La sindrome rancorosa del beneficato

Maria Rita Parsi nel saggio “Ingrati” si sofferma su una malattia dell’anima che definisce: “Sindrome rancorosa del beneficato”. E’ descritta come un sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente, altre volte, invece, cosciente) che coglie, come una autentica malattia, chi ha ricevuto un beneficio.

L’autrice spiega le motivazioni che spingono il beneficiato a provare questa emozione avversativa nei confronti del benefattore. A suo avviso, il beneficato si trova in evidente debito di riconoscenza nei confronti del benefattore e questa condizione scatena ingratitudine e odio. La persona affetta da tale sindrome sminuisce oppure nega il beneficio ricevuto; addirittura lo trasforma in un peso da cui liberarsi. Il proprio benefattore diventa una persona da allontanare, da dimenticare, da penalizzare e calunniare.

Questa è una patologia che molte persone sviluppano, dopo aver ricevuto dei benefici di varia natura: professionali, economici, affettivi, di sostegno in momenti di grave difficoltà. Benefici che li hanno messi in una condizione di ”dipendenza”, per cui sperimentano un rifiuto per il loro benefattore, facendo prevalere il bisogno di dire: “Io non devo niente a nessuno”.

Nel beneficato scatta un meccanismo d’invidia per il potere del benefattore, un senso d’inferiorità per aver dovuto chiedere, per questo motivo nel beneficato nasce un disagio profondo che lo porta a cancellare il proprio benefattore, che con il suo intervento può testimoniare la fragilità del beneficato.

Maria Rita Parsi riconduce questa sindrome al rapporto primario dell’infante con la madre. Per lei questa sindrome ha a che fare con l’invidia primaria, che rappresenta quel sentimento di rabbia, in quanto un’altra persona possiede qualcosa che desideriamo. L’impulso invidioso mira a portare via o a danneggiare ciò che non si possiede. Inoltre, l’invidia implica un rapporto con una sola persona ed è riconducibile al primo esclusivo rapporto con la madre. L’invidia cerca non solo di derubare la madre, ma anche di mettere le parti cattive del Sé nella madre allo scopo di danneggiarla e di distruggerla. La stessa arcaica invidia e rabbia si prova quando si ricevono aiuto, collaborazione e appoggio. Il benefattore è percepito come talmente potente da generare nel beneficato confusione, promiscuità ed invidia. Il beneficato teme che il benefattore possa sopraffarlo e per tal motivo si protegge cercando di annientarlo.

A mio avviso il rancore verso il benefattore ha motivazioni diverse da quelle descritte da Maria Rita Parsi. Per spiegare queste motivazioni mi soffermo su alcuni video di cronaca quotidiana a Milano. In questi video si può osservare la fila di disperati che si recano nella sede dell’associazione ONLUS “Pane quotidiano”, per ricevere un piatto di minestra e un tozzo di pane. Guardando con attenzione i loro volti vi si leggono: vergogna, umiliazione, frustrazione. Se, però, osserviamo i volti dei volontari che lavorano gratuitamente per fornire questi beni di prima necessità, notiamo espressioni diverse. In loro si leggono: compiacimento, soddisfazione, gioia.

Appare evidente il contrasto di emozioni e sentimenti tra i volontari  e i disperati. Un flusso di emozioni passa dai bisognosi ai volontari. In questo flusso, il dolore diventa gioia; in questo flusso, il bisogno diventa soddisfazione.

L’interazione tra benefattore e beneficiato non è soltanto di natura economica e/o assistenziale. Ciò che lega volontario e bisognoso non è solo il passaggio del piatto di minestra dalle mani dell’uno alle mani dell’altro. Il legame coinvolge anche la sfera emotiva. Mentre il volontario passa il piatto di minestra al bisognoso, quest’ultimo gratifica col proprio dolore il volontario. Il disperato nutre con la minestra altrui il proprio corpo; il volontario nutre col dolore altrui il proprio animo.

E’ possibile che persone sensibili beneficiate avvertano il compiacimento del benefattore. Queste persone si rendono conto che la loro condizione miserevole è motivo di gioia. Ciò scatena il rancore.

Non è il senso d’inferiorità o l’invidia a generare il rancore del beneficiato verso il benefattore. Il beneficiato non è malato, non ha alcuna sindrome. Il beneficiato, più semplicemente, si accorge che la soddisfazione di sé, il compiacimento del benefattore discende dai suoi tormenti.

3 pensieri su “La sindrome rancorosa del beneficato

  1. Interessante giro di vite che secondo me si somma alle spiegazioni della Parsi e può in effetti costituire un ulteriore motivo, senza che si vi sia contraddizione. Tuttavia, ho sofferto in carne propria lo scorno di essere detestata da una persona a cui volevo bene e che ho cercato di aiutare. Pur con tutte le riserve del caso, le analisi e controanalisi, i ma e i però… per me la st….a resta ancora lei.

  2. L’esempio è fuorviante e probabilmente anche il punto di vista non è corretto, in quanto mette sullo stesso piano un operatore che volontariamente mette a disposizione il suo tempo e una persona , il “benefattore” che non dona solo il suo tempo ma anche il suo sapere , i suoi beni e anche la fiducia che questo produrrà qualcosa di utile per la persona alla quale si sforza di consegnare tutto questo, comprese le sue speranze. Questi non nutre il proprio animo col dolore altrui , semplicemente non lo accetta e fa qualcosa per alleviarlo. in altre parole , si identifica.

  3. Aggiungerei che forse il beneficato è solo un grande egoista: ha la percezione che un rapporto di solidarietà umana è bidirezionale e che lui non sarebbe altrettanto sollecito nel ricambiare il favore che riceve; pertanto lo sminuisce e-o lo nega.

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